Ora torno indietro di parecchi anni, nel 1979.
Valerio un pomeriggio andò con altri compagni in campagna a sparare dei pedardi fabbricati da loro, ma una pattuglia della polizia (o una spiata) li intercettò e fermò tutti quanti, solo che l’unico maggiorenne era Valerio che aveva compiuto i 18 anni due mesi prima; lo portarono a Regina Coeli, gli altri a Casal del Marmo. Mio marito ed io eravamo fuori e quando tornai a casa da sola, mentre mi stavo cambiando gli abiti, sentii suonare: aprii la porta e mi trovai di fronte alla polizia, si presentarono e mi dissero cosa era accaduto,un colpo per me, mai avrei immaginato che mio figlio potesse fare una cosa del genere; con il mandato di perquisizione che avevano, cominciarono a cercare nei cassetti, trovarono foto un dossier (il famoso DOSSIER) e per giunta una pistola. Quando la vidi mi sentii gelare, da dove sbucava? Non l’avevo mai vista. Fatto il loro lavoro se ne andarono ed io rimasi in attesa di mio marito; come raccontargli cosa era accaduto? Infatti come rimase non so descriverlo.
Vennero degli amici che avevano sentito la notizia alla radio, dalla quale avevano sentito descrivere mio figlio come un fabbricante di bombe. Prendemmo un avvocato, ma purtroppo mio figlio fu condannato a sette mesi con la condizionale. Cominciò l’odissea avanti e indietro fra avvocati e carcere per i colloqui; poi mio marito, una notte, si sentì male e lo portai al Policlinico Gemelli.
Ero rimasta sola a dover gestire tutto, lui non mangiava il cibo dell’ospedale e i medici mi fecero un permesso per portarglielo da casa. Era un viaggio andare al Gemelli ma io tutti i giorni ci andavo lo stesso, questo per 35 giorni; in più dovevo gestire il problema di fare, una volta alla settimana, i pacchi di cibo per Valerio: meno male che mi aiutavano le sue amiche compresa Manuela, ma credetemi, non auguro a nessuno quello che ho passato in quel periodo. Finalmente il processo d’appello, e ad ottobre Valerio uscì: andai a prenderlo e non vi dico la gioia che provai a poter vedere il mio ragazzo fuori di lì. Era finito l’incubo.
Mio marito stava meglio, ma gli avevano riscontrato un’epatite, diabete e ipertensione, perciò si doveva curare; speravamo che tutto fosse finito, sbagliavamo.
Un giorno Valerio era con Manuela, quando lo chiamarono perché c’era in corso una rissa a piazza Annibaliano, tra fascisti e autonomi. Lui andò e non ho mai saputo da chi ebbe un coltello; morale della favola: per difendere il suo amico Massimo diede una coltellata ad uno e lui si prese una martellata in petto. Noi abbiamo saputo questo dopo la sua uccisione, quella sera non venne a casa perché lo portarono da un medico, e telefonò dicendo che stava a casa di un amico; era vero però ci nascose il fatto, non voleva farci sapere cosa era successo. In quella occasione Valerio perse una borsa (che era mia) con dentro il documento di identità, così i fascisti seppero chi era. Quando venne a casa la mattina dopo non ci disse niente e tutto continuò come prima: andava a scuola, venivano i suoi amici di sempre, compresa Manuela; sembrava tutto tranquillo. Fino a quel maledetto 22 febbraio 1980.
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